ombrello rosso



Mentre guardo fuori la pioggia che scende mi accorgo della signora con i tacchi ed un vistoso ombrello rosso che cerca di correre senza riuscire a prendere meno pioggia di un altro anziano signore che nonostante avesse grandi piedi si muoveva con delicatezza. La signora accelera, avanza tra la folla del marciapiede, l’ombrello si distingue tra gli altri grigi e spelacchiati; dal fondo della strada, eccola proprio sotto la mia finestra, lei non lo sa, ma io la sto guardando e me la ricorderò per molto tempo, un ombrello rosso e una giornata di pioggia; anche il signore dai grandi piedi resterà nella memoria, d’altronde non vedo molto di più, se non il colore dell’ombrello, beige scolorito. Mi accorgo che il gatto si è avvicinato sulla mensola sotto la finestra, anche lui guarda fuori, chissà se il rosso dell’ombrello lo sta affascinando, poi mi ricordo che i gatti non vedono i colori, forse sta solo cercando un topo.

La casa dietro di me è buia, solitario pomeriggio, fra serie tv e giornali. Aspetto il rientro della truppa rumorosa e colorata per riempire le pieghe di una vita ormai segnata dalla banalizzazione del quotidiano. Poltrone di pelle nera fanno da sfondo ai miei pensieri segnati da una volgare nausea verso le cose conosciute e standardizzate. Il colore funereo della giornata, compreso da un impossibile caratterizzazione ripetitiva delle giornate, questa sensazione di sapere la parola successiva in quasi tutte le azioni, gli eventi e i passaggi che incontro, come un dejavù dai risvolti patologici.

L’ombrello rosso è sparito. Chissà se in punto di morte sarò assalito dal suo ricordo o mi comparirà nei sogni come un incubo. Guardo il gatto e lui mi ignora, preso a seguire il movimento umano, muove la testa a destra e poi a sinistra, ho l’impressione che li consideri formiche. Una distorsione analitica della realtà. Lo accarezzo e poi mi guarda con i suoi occhi gialli, grandi, quei baffi lunghi, annusa l’aria come per cercare di capire le mie emozioni.

I punti di vista sono sempre diseguali, ognuno ha la sua realtà o verità su cui fonda un infinito pensiero costruito, vincolante e probabilmente causa per un effetto che continuerà a generare nella sua vita, ma non solo, effetti di tutti i tipi. Siamo personaggi strani, contorti, vacui e spesso anche tragici, fallibili e distrattamente cattivi. I gatti sembrano più semplici e logici, come ogni animale incline a sopravvivere e a trasmettere i propri caratteri genetici. Noi invece, oltre a quello, abbiamo una marcia che ci fa accelerare, come la signora sotto l’ombrello, con i tacchi, ma non sappiamo dove andare. Eppure, possediamo molti strumenti che hanno un impatto determinante sulla nostra sfera vitale, attitudini e logica, che vanno oltre il comune bisogno.

Il gatto è concentrato con lo sguardo sulla strada, mi imita, forse si starà domandando cosa trovo di così interessante sulle formiche, ma resta in posizione, d’altronde la sua vicinanza potrebbe essere un aiuto,

Ecco, dall’altra parte della strada arriva un enorme ombrello, verde che cammina con molta calma, sembra un uomo, è un uomo, si sposta sul marciapiede per evitare gli altri. Verde è un colore strano, sarà l’ombrello della moglie, oppure è un uomo atipico, un personaggio che ama mettersi in vista, chissà se porta la cravatta o il farfallino. Dall’alto si vede poco, solo delle scarpe nere e jeans, probabilmente non usa nemmeno la cravatta, sarà un rampante informale. Cammina e poi accede al parcheggio, quello laterale dietro la chiesa, non lo vedo entrare in macchina ma, dopo qualche minuto, esce un grande SUV bianco che gira a destra. Potrebbe essere un uomo che conta, conta i soldi e il potere. Forse non quanto lui vorrebbe ma abbastanza per tutti quelli che vivono con i debiti, ed un precario senso economico in un quotidiano di spese forzate che non puoi evitare.

Il gatto ha fatto un movimento verso di me, ritiene che stia esagerando con la finestra, gli concedo i grattini sulla testa per pochi minuti, poi scende e se ne va. Ha deciso che questo spettacolo è diventato noioso.

Resto ad ammirare l’umanità che si dibatte in una giornata uggiosa, avvolta nei suoi cappotti pesanti, come piccole meteore, sassi, sabbia o formiche. Siamo troppi. Tutti arroganti, con la pretesa di essere l’unico esempio di interesse universale, in realtà nonostante che ognuno possieda una sua unicità, ci somigliamo più di quanto crediamo. Se mi soffermo a valutare e a scambiare i miei panni con chiunque sia davanti a me o a fianco, scopro che possiede il mio medesimo sentire. Spesso si vergogna o soffre e le sue reazioni sono le stesse che avrei io, noi, tutti, o si nasconde o aggredisce. Il mondo non è un luogo facile, ogni giorno siamo chiamati a moderare e mediare, tra un sentire personale ed uno collettivo. Se mi nascondo esco con un ombrello anonimo, grigio, sciupato, piccolo e così posso lamentarmi di quanta pioggia ho preso, di quanto gli ombrelli non funzionano, sento la pioggia penetrarmi nel collo e corro a casa nella speranza di trovare del calore, affetto e comprensione. Se mi impegno ad essere aggressivo, uso un ombrello grande, vigoroso e non corro, sono pragmatico, avanzo scartando o facendomi scartare. Alle volte è una scelta e molto spesso è un effetto della causa che si è generata, nondimeno dipende dalle mie scelte.

Più penetri nella tortuosità delle relazioni e maggiormente comprendi che sono fuori dal tuo controllo, tu influenzi gli altri e gli altri influenzano te. Iniziando dalla tua infanzia di cui non ricordi niente, quella in cui succhiavi il latte e non mettevi a fuoco le persone. Per non parlare delle tue prime esperienze o della scuola, della tua adolescenza. Certo che non scegliamo un ombrello solo per l’adolescenza ribelle ma per tutto quello che è successo prima, ci impieghiamo tutta la vita a rielaborare i primi vent’anni, in cui non capivamo come usare in maniera adeguata i nostri neuroni, e quando non avremmo che due sole sinapsi, forse saremo riusciti a risolvere l’80% dei nostri guai interiori. Cioè quando non possiamo più cambiare una virgola della nostra esistenza, avremmo capito perfettamente dove abbiamo sbagliato e chi ne è il colpevole. A questo punto i genitori sono morti, vuoi accanirti contro dei morti? Mio fratello è andato a vivere a Ottawa e per quanto ci voglia litigare o lo reputi un incapace incallito, lascio decadere ogni conflitto pur di sentire una voce che si ricorda di quando ero bambino. In pratica il reato è in prescrizione e visto che non ci puoi fare nulla, inizi a perdonare.

Perdoni tutti, è un lavoro lungo e impegnativo ma è l’unico che ti mette in pace con il passato, magari ti restano dei rammarichi, qualche rimorso sparso per cui speri nel perdono altrui. Ti guardi attorno e gli amici sono pochi, qualcuno è sparito senza fare rumore e qualcun altro è fuggito per strade impervie, quelli rimasti hanno le loro pezze da mettere. Parenti pochi, affetti stabili da contarsi su una mano. Se guardo avanti vedo solo il declino.

Tòh guarda un ombrellino a fiorellini, è un bambino, come si diverte con i suoi stivali di gomma ad entrare nelle pozzanghere, a lui la pioggia fa bene, ha un gusto di avventura forse meglio del gelato al cioccolato, va avanti e aspetta la mamma, eccola con il passeggino, lei ombrello rosa e il bimbo incellofanato, sembra un pacchetto da conservare, così però non si bagna e può vedere il mondo da una nuova angolazione. Questi bambini sono facilitati, a me avevano proibito di uscire quando pioveva, c’era una paura diffusa sul raffreddore e sulla malattia, probabilmente una sorta di ignoranza sanitaria e tanta mortalità infantile. I bambini, i nostri figli, sono una parte di noi stessi tanto che siamo riusciti a farli diventare i padroni del nostro presente. Una volta crescevamo come le gramigne nel campo di grano, oggi li coltiviamo come piante rare, loro ne approfittano, si vendicano o rivendicano lo stato di erba libera. Gli serviamo la vita su un vassoio d’argento, cerchiamo di essere noi gli artefici delle loro scelte, li proteggiamo dagli schiaffi morali e materiali che insegnano a crescere. Togliamo loro ogni genere di fatica, dalla più banale a quella più complessa. Noi scappavamo di casa per le regole troppo ferree, loro non escono di casa nemmeno con un lavoro strapagato. Fanno la loro vita, hanno i loro orari, non si occupano dei genitori che sono arzilli anziani, hanno un monolocale per il sesso ma tornano a casa e dormono nel letto, nella stanza con i ricordi del loro essere stato un bambino. Quando mi sono sposato, mia madre ha liberato la stanza, ne ha fatto uno studio per mio padre. Il messaggio era chiaro, non tornare. Doloroso ma reale. In effetti non sarei tornato nemmeno morto.

Oh, ma quella non ha un ombrello, è seduta sulla panchina e morde lo sfilatino che tiene in una mano e nell’altra un pezzo di formaggio, non sembra una donna senza dimora, però ha fame. Deve essere entrata a comprare la roba nel super all’angolo. Pochi euro e poca roba ma sostanziosa. Piove e si bagna, mangia e si bagna, sola. Mi mette tenerezza e tristezza. Morde il pane con forza. Non si può avere ancora fasce deboli e marginali. Abbiamo raggiunto un benessere diffuso, siamo evoluti anche sul piano sociale, abbiamo l’obbligo di rendere tutto, disponibile a tutti. Perlomeno l’indispensabile per una vita vivibile. Quella donna sta ancora mangiando, divorando pane sordo e formaggio, così sembra, è anziana o almeno non più giovane. Mi chiedo cosa la porti ad un simile comportamento, forse ha problemi psichiatrici o forse è solo povera. Dovrei scendere e parlarle e poi, che faccio, posso darle dei soldi, aiutarla a trovare un lavoro. Posso chiamare un’associazione, non tutti vogliono un aiuto. Una volta ho chiamato l’ambulanza per un signore che non stava in piedi, era a terra e a fatica è entrato nella sua auto. L’ambulanza è venuta e lui l’ha mandata via, è restato in auto un po’ di tempo, ha fatto una manovra a vanvera, ed è partito zigzagando. Non scendo, continuo a guardarla mangiare e vedo che nessuno si ferma a chiederle qualcosa, non siamo sempre in grado di prenderci cura del prossimo, ci mancano anche gli strumenti ma dovremmo pensarci. Già. Siamo presi dalle nostre, piccole e grandi, disperazioni dell’anima. La salute, gli amori, i soldi, la casa, la sofferenza. I figli, i genitori, la moglie. Mioddio ma quanta gente! Lasciatemi perdere. Gli amici, i colleghi e i conoscenti, i vicini di casa. Una fitta rete di interazioni sociali che mi annoiano a morte. Sono vecchio, ah no, solo attempato. Ho meno strada davanti che quella che ho già percorso, vada come vada, non ho molto da perdere. Ho smesso di essere perfetto, preparato e concentrato.

Nel silenzio avvolgente, ogni minimo rumore è percepito senza dimenticanze, le chiavi nella serratura, il fruscìo degli indumenti, il rumore delle scarpe, gli oggetti appoggiati. Non mi sono mosso. Si accendono le luci. Passi leggeri, poi le ciabatte morbide. Sento il suo respiro. Mi scopre davanti ancora alla finestra.

“Ciao, pensavo fossi uscito.”

“no cara, sono sempre stato qui, i cuccioli dove li hai messi?”

“Rimandati dalla mamma, iniziavo a essere stanca, tu che ci fai qui?”

 

“Meditazione filosofica”